Qui, la mafia ha perso
Per tantissimi anni non si è mai saputo se la mafia nella nostra Italia esistesse, o fosse una semplice voce di corridoio. Secondo alcuni era un’invenzione dei giornalisti, secondo altri un’enfatizzazione della delinquenza comune. I vari pentiti hanno chiaramente affermato che la mafia esiste e non era un’invenzione dei giornalisti, né tantomeno una voce di corridoio. Ne hanno spiegato l’organizzazione interna, hanno svelato i segreti più profondi, hanno parlato delle connessioni con la politica e le imprese, delle estorsioni, della divisone del territorio, dei traffici. A questo punto risulta impossibile accettare come legittima ogni sorta di disconoscimento del fenomeno mafioso, e delle varie connessioni ad esso legate. Chi voleva sapere ha avuto la possibilità di farlo.
Però, da questo momento in poi, pochi hanno contribuito alla lotta alla mafia attraverso la loro testimonianza, piuttosto hanno accettato passivamente la realtà criminale. Anche il silenzio di chi sa e non parla, di chi aiuta, di chi favorisce la mafie e i suoi componenti è un reato. La criminalità, attraverso la violenza, la strategia del terrore, si assicura un’incolumità inimmaginabile.
Ci sono alcuni uomini però, che hanno abbandonato il silenzio, l’omertà e hanno rivelato alle autorità competenti tutto ciò che sapevano. È inutile affermare che hanno letteralmente messo in gioco la loro vita e quella della loro famiglia. La mafia non ha l’abitudine di lasciare in vita le persone che la affrontano, che possono contribuire a farne condannare i componenti. Dunque, per la loro scelta di legalità, hanno accettato di lasciare la loro terra, la loro famiglia, partendo senza certezze e con molti interrogativi, <come se i criminali fossero loro> [Organizzare il coraggio di Pino Masciari]. Insomma uomini che si sono affidati e si affidano allo Stato, <che mettono la loro vita e quella dei loro familiari nelle mani del magistrato> [dott. Franco Roberti – Confessioni di un killer]. Lo stato, con la legge n°45 del 13 febbraio 2001, ha introdotto la figura del testimone di giustizia, e con questa ha esteso a loro, come aveva già fatto con i collaboratori di giustizia in precedenza, vari provvedimenti. Si parla di protezione fino alla effettiva cessazione del pericolo per sé e i familiari, alla capitalizzazione del costo di assistenza, ad una somma mensile a titolo di mancato guadagno. Insomma, almeno sulla carta, lo Stato mette il cittadino nella situazione ideale per la testimonianza.
Parliamo però della cruda realtà di questa scelta di lotta alla mafia. Assegni non corrisposti, scorta fantasma, documenti con nuova identità mai ricevuti. E ancora, case di copertura sporche, inadatte, assenza di ogni rappresentante delle istituzioni nei momenti cruciali del Programma di protezione. E se vogliamo che questa sia una condanna allo Stato, perché non parlare dei carabinieri, dei poliziotti, e anche dei giudici, che invece di incoraggiare la scelta di testimoniare contro la mafia, cercano di metterla in discussione?
I testimoni sono solo incoraggiati da quel senso dello Stato, da quel senso di giustizia che li ha portati fin lì. Dunque, vite in balia della loro scelta e dei sicari mafiosi pronti ad ammazzarli senza pietà alcuna. Sembra quasi si stia parlando di un altro stato e non di quello che ha approvato la legge 45\2001. Uno stato che incentiva l’omertà più che la testimonianza. Come si pretende che un cittadino svolga il suo dovere se le istituzioni non sono al suo fianco? Infatti la mafia è ancora lì, proprietaria del territorio, che controlla e gestisce ogni cosa. Se si vuole cambiare questa situazione in meglio, bisogna per prima cosa che lo Stato sia presente fisicamente, attraverso i suoi rappresentanti, e dove possibile anche umanamente. È questa consapevolezza di non essere abbandonati che permette di alzare la testa, di non sottostare più alle pretese assurde delle ‘ndrine calabresi, dei clan della Camorra, delle famiglie siciliane.
I testimoni di giustizia comunque hanno saputo far fronte alle disorganizzazione, alle mancanze e hanno continuato sulla loro via. Scorta, o meno, hanno testimoniato in aula, e con l’introduzione della prova orale, hanno fatto condannare uomini dei clan, così come gli uomini delle istituzioni. Nel momento in cui lo Stato era assente hanno contato sulle loro forze, sugli amici, sui sostenitori che danno una pragmatica impressione di aver fatto la scelta giusta. È questo il risultato di una sorta di rifiuto per principio di < quel puzzo del compromesso morale> di cui, a suo tempo, parlava Paolo Borsellino.
Anche se implicitamente raccontata, questa è la storia di Pino Masciari, il maggiore testimone di giustizia italiano, ma anche di molti altri che si conoscono meno, che hanno guardato allo Stato per tanti anni, chi più, chi meno, come un nemico corrotto, contro cui combattere quotidianamente, piuttosto che potersi affidare.
Sarebbe auspicabile per tutto il Paese, e non solo per le regioni meridionali, che per troppo tempo sono state ritenute le uniche interessate dal fenomeno mafioso, che lo Stato incentivi ogni testimonianza. È necessario che metta realmente in pratica ciò che l’ordinamento giuridico italiano prevede, che indaghi sulla parte losca, corrotta delle istituzioni. Infine è urgente che la situazione cambi, che si trovi un modo concreto per proseguire efficacemente nella lotta alla mafia.
Articolo scritto da Aurora Lagravinese
Tratto integralmente da: http://teenreporters.cogitoetvolo.it/qui-la-mafia-ha-perso/