‘Ndrangheta, scacco al pallone. Estorsioni, minacce, frodi.

La squadra di famiglia. Benvenuti a Rosarno dove anche il calcio diventa strumento di potere nelle mani della ‘ndrangheta. Estorsioni, minacce, frode sportiva, traffico di droga, scommesse e consenso locale. Tutto ruota intorno a un pallone e spazza via anche l’ultima illusione: la criminalità da queste parti non lascia nessuno spazio franco, tantomeno ai ragazzini che si affannano sull’unico campo polveroso per inseguire il sogno della A e una ricchezza garantita dai gol. La ‘ndrangheta, invece, non ha bisogno d’inseguire nulla. E chi si ribella finisce sotto terra.

Squadre sotto sequestro

Del resto in questo angolo di Calabria con vista sul Tirreno e le isole Eolie le parti sono capovolte: lo Stato è sempre la seconda opzione. I numeri fanno paura: Rosarno ha circa 15 mila abitanti e sono più di 500 gli affiliati alla ‘ndrangheta. A Palermo, tanto per fare un paragone, i picciotti della mafia sono molti di meno. Questo spiega perché la famiglia dominante, i Pesce, ha un potere assoluto: non si muove foglia senza il loro assenso. Il calcio non è un’eccezione. Anzi, a studiare le carte dell’operazione All Inside condotta dalla Dda di Reggio Calabria (il 12 luglio a Palmi il via al processo per i 64 imputati, in 12 hanno scelto il rito abbreviato) che tramite la Guardia di Finanza e i carabinieri ha sequestrato beni per 206 milioni di euro, comprese le squadre del Cittanova e del Sapri, si capisce come il pallone sia strategico per allargare i confini e stringere nuove alleanze. Senza un cambio di mentalità delle nuove generazioni, la partita è persa. Fino a oggi i pentiti sono primule rosse. E, quando ci sono, spesso si pentono del pentimento: come è accaduto a Giuseppina Pesce. Le sue rivelazioni hanno acceso la luce sugli affari di famiglia, ma dopo 6 mesi è ritornata sui suoi passi. Comunque, è profondo il colpo inferto alla criminalità dal lavoro del procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Alessandra Cerreti. E aiuta a mappare i movimenti dei Pesce sul pianeta calcio. Iniziando dalla gestione finita in mano a Francesco: capitano in campo e spietato reggente fuori. E’ lui, figlio del boss Antonino che dal carcere continua a dare disposizioni, l’ispiratore del salto di qualità nella gestione sportiva. E’ sempre Francesco, sfuggito alla cattura lo scorso aprile e probabilmente latitante in qualche casa-bunker di Rosarno, l’erede di un impero ora messo in discussione dalla reazione dello Stato.

Gli affari

“Francesco ha amici nel pallone e ci portano affari. Ha uno che compra e vende: questo è l’inserimento che dovete fare. Bisogna inserirsi e investire al Nord… Ci sono 22 giocatori, quelli portano pane, portano novità. Così è e così va bene”. Il boss Antonino Pesce, detto u testuni, dal carcere di Palmi detta la linea. Il calcio è business per la famiglia. E si muove su due piani. In primis c’è la squadra di famiglia, la vecchia Rosarnese diventata Interpiana dopo la fusione con il Cittanova. Tutti gli imprenditori della zona sono costretti a contribuire alla gestione economica attraverso le estorsioni. Un pizzo persino “morbido”, fatto sotto forma di sponsorizzazione che permette al taglieggiato di scaricarne una parte attraverso le tasse. Ma nulla è lasciato al caso: i giocatori della rosa mangiano, dormono, fanno la spesa, lavano i vestiti e persino si tagliano i capelli nei negozi indicati e vessati dai Pesce. Stessa cosa accade per le squadre ospiti: vitto e alloggio solo nei posti in mano alla criminalità. Ma i calciatori sono utilizzati anche per altre mansioni. Lo spiega Salvatore Facchinetti, collaboratore di giustizia. “Il calcio serve ad allargare le conoscenze. Hai un casino per della droga da consegnare? Il calciatore avrà pure un amico o un parente pulito… Io tramite Ciccio Testuni (Francesco Pesce, ndr) ho risolto una questione nel brindisino attraverso un giocatore”. Guarda caso lo scorso 24 maggio De Liguori, capitano della Nocerina neopromossa in B, è stato arrestato con l’accusa di spaccio per conto della camorra. Ricapitolando: in nome del calcio si commettono estorsioni, si finanzia la cosca, si ricicla il denaro e si risolvono “problemi”. Non solo, tenere alto il nome del paese attraverso il pallone crea il “consenso locale”. C’è poi il capitolo frode: partite vendute, campionati truccati e scommesse. Reato contestato dalla Dda, ma ignorato dalla Procura sportiva.

Il pareggio sognato

“Stanotte ho sognato che Vico Equense-Rosarnese finirà 1-1”, è il 17 maggio del 2009 quando Domenico Varrà, presidente della squadra di famiglia dei Pesce, al telefono non si scompone quando gli comunicano che i campani sono passati in vantaggio. “Non ti preoccupare, vedrai che pareggiamo”, aggiunge. Pochi minuti dopo il “sogno” si avvera: “Ha segnato Vicentin? A madonna, facevo 13…”. Pochi giorni dopo è ancora più esplicito quando lo chiama il procuratore dell’attaccante argentino: “Col Vico ha fatto il ventiduesimo gol della stagione? Vabbò, guarda che ho segnato io…”. Varrà è finito in carcere lo scorso anno, ma fino a quella data si vantava di sapere in anticipo molti altri risultati del campionato di D, tirando in ballo squadre come l’Hintereggio, il Neapolis, il Siracusa, la Viribus Unitis, il Modica. I giudici, però, gli contestano la frode sportiva solo per la gara con il Vico. Naturalmente questo scenario apre a un altro affare: le scommesse. Come la camorra, anche le cosche calabresi usano il calcio come una “lavatrice”. Non solo, l’indicazione dal carcere può voler dire che i soldi della famiglia devono essere investiti al Nord. Tradotto: probabilmente per corrompere giocatori e alterare le partite.

In terra straniera

Ma c’è un altro aspetto in questa storia che ha sorpreso gli inquirenti. La voglia dei Pesce di non accontentarsi di una sola squadra di famiglia. Nel 2005 la cosca reggina ha cercato di rilevare il Cosenza, quando era in B. Affare saltato. Nel 2006 i Pesce si “accontentano” di raddoppiare tra i dilettanti mettendo le mani sul Sapri. Mossa atipica perché fatta in un territorio lontano e potenzialmente nemico. Ma forse è vero il contrario: la presenza della ‘ndrangheta in provincia di Salerno può significare un’asse potenziale con la camorra, molto attiva nel mondo delle scommesse come ha evidenziato l’operazione Offside della Dda di Napoli (che ha dato il via anche alla inchiesta della Gazzetta) diventato negli ultimi anni il nuovo business della criminalità. Da aprile, però, le 2 squadre di famiglia hanno seguito il destino del testuni. Magari gioca fuori casa, ma lo Stato dimostra che si può vincere anche in Calabria.

Articolo di Francesco Ceniti e Maurizio Galdi (tratto dal La Gazzetta dello Sport)